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Il patto di non concorrenza

Il legislatore ha previsto, allo scopo di tutelare le imprese, una particolare disciplina tesa a regolare l’attività lavorativa degli ex dipendenti (subordinati e parasubordinati

– Cass. Civ. n. 1043/2009) anche per il periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro. Naturalmente, tale esigenza di tutela è avvertita soprattutto nei confronti dei dipendenti di alto livello che, a causa del ruolo ricoperto, vengono a contatto con informazioni aziendali la cui diffusione provocherebbe un gravissimo danno all’attività imprenditoriale.

Precisamente, con il c.d. patto di non concorrenza si è inteso limitare la possibilità del lavoratore di svolgere la propria attività in concorrenza con l’azienda dopo la conclusione del rapporto di lavoro. Nel contratto di lavoro, quindi, può essere prevista tale tipo di clausola la cui disciplina è dettata dall’art. 2125 del codice civile: “il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo, di luogo”.
Tale tipo di accordo deve essere inteso come un’estensione dell’obbligo di fedeltà (ex art. 2105 c.c.) che grava sul lavoratore durante il periodo in cui presta la propria attività alle dipendenze del datore, anche per il periodo successivo alla cessazione del rapporto.
Naturalmente, benché tale patto sia finalizzato a tutelare alcune specifiche esigenze aziendali, si è cercato di trovare un equilibrio tra gli interessi delle parti coinvolte. Difatti, il patto di non concorrenza incontra dei limiti ben precisi relativamente alla forma ed al contenuto. In primis, a pena di nullità, l’accordo deve rivestire la forma scritta e deve essere individuato con precisione l’oggetto della “non concorrenza”; inoltre, devono essere ben individuati i limiti temporali e spaziali. La durata non può superare di 5 anni per i dirigenti (mentre per gli altri dipendenti il periodo massimo è fissato in 3 anni); in caso contrario, tale limite viene ricondotto al massimo previsto ex lege. I limiti spaziali possono riguardare Comuni, Province, Regioni e, in alcuni casi particolari, anche territori più ampi, purché non si comprima eccessivamente la possibilità del lavoratore di svolgere la propria attività relativamente alla proprie specifiche professionalità.
Inoltre, deve essere previsto uno specifico compenso per il lavoratore; quindi, tale tipo di accordo si configura come un contratto oneroso e sinallagmatico in virtù del quale il lavoratore si impegna a non svolgere – entro i limiti sopra indicati – un’attività concorrenziale con quelle del suo ex datore di lavoro e, quest’ultimo, si impegna a corrispondere una somma di denaro o altro tipo di utilità.
Il legislatore non ha previsto dei criteri per quantificare l’importo del compenso, né è stato previsto un importo minimo; sul punto è intervenuta la giurisprudenza, sancendo che la misura del compenso non deve essere simbolica, ma proporzionata alla durata del patto di non concorrenza, all’oggetto e alla sua estensione territoriale.
Il mancato rispetto dell’accordo da parte del lavoratore dà il diritto al datore di chiedere l’applicazione di una penale (solitamente espressamente prevista nel contratto) e di ricorrere al Giudice per ottenere gli eventuali maggiori danni e l’inibizione dell’attività lavorativa illegittimamente svolta.

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